In vacanza con PetriPaselli
Non c’è bisogno di andare su Marte, quando ci si può ricordare di averlo fatto. La funzione del souvenir è appunto quella di evocare una sensazione o un luogo. In un lavoro precedente, intitolato appunto Souvenirs d’Italie, Petripaselli avevano riplasmato un grande mito ulturale, quello del voyage en Italie, del Grand Tour, il percorso che portava grandi artisti, impegnati intellettuali, scrittori, nobildonne in cerca dell’arte e del pittoresco, a seguire una rotta che attraversava la nostra penisola per visitarne le sedi più rilevanti: Firenze, Venezia, Roma, Napoli, e non tantissime altre. Esistevano racconti di viaggio, ma anche vere e proprie guide, a definire ciò che oggi è definito un must see: non puoi non aver visto la cupola di Michelangelo o il Canal Grande, la torre di Pisa o Capri. Quei percorsi alti, meditati, che filtravano secoli e secoli di indagini critiche e di tradizioni estetiche – certo, anche luoghi comuni e abitudini – si sono progressivamente poi abbassati, per finire il loro percorso tristemente, nei tour frenetici delle agenzie che proponevano, e a certi target ancora propongono, tutta l’Italia in una settimana; o per trasformarsi nelle trasferte obbligate degli addict della grande mostra, il cui ruolo, costantemente in divenire e in aumento, ha preso ormai il posto delle gallerie, dei musei, delle chiese e dei palazzi; questo avviene forse proprio perché alle generazioni postmoderne (coscientemente o meno) piace ciò che non può essere fermato, che quasi non lascia una scia, che è per definizione temporaneo e provoca tensione, quasi trance agonistica, in una visione di cui si sa che deve finire, che non tornerà e che non tutti vedranno – Palazzo Pitti rimarrà sempre lì (si spera), l’ennesima mostra di Caravaggio bisogna coglierla al volo, esserne parte.
Petripaselli, allora, avevano eseguito per un grande committente, FMR, una versione attuale di questa esperienza sensoriale, in cui i monumenti, le vedute, ma anche i colori, i sapori e gli odori, si organizzavano in un percorso ordinato e quasi codificato. La loro declinazione si attuava in splendide foto mischiando evocazioni e spunti alti (altissimi: Stendhal, i putti dell’Ospedale degli Innocenti, o Carpaccio agli Schiavoni) al trash della tazzina col Ponte Vecchio, del David – da pronunciare Deivid – in miniatura, o ancora dell’ormai archetipica palla di vetro, non importa cosa ci sia dentro purché sia lontano da noi (nello spazio, ma dopo il ritorno a casa anche nel tempo). Nelle loro fotografie si mostrava e si produceva quindi un ricordo artificiale, in cui la fotografia costituiva, come scrisse al proposito Flaminio Gualdoni, “una riflessione sul mito iconografico dell’Italia”. Ma al contempo le immagini proponevano a mio modo di vedere una sorta di visione altra, sostitutiva dell’esperienza reale, proprio come nel racconto di Philip Dick, in cui la memoria indotta, e la fornitura di gadget di supporto, funziona da succedaneo. Se tu credi di esserci stato, e se tutti lo credono, allora ci sei stato, al di là degli sviluppi di una storia tanto ben congegnata da essere poi ripresa in un film splendido. Non che sia un fenomeno nuovo: per generazioni e generazioni, i visitatori di Roma, vedendo qualche rovina architettonica e due o tre frammenti di statua, si sono inventati un’Urbe inesistente, un prototipo di antico e di classico che non si poteva percepire con l’occhio ma solo con la mente, solo se opportunamente però predisposta da un background culturale (Obelix direbbe al proposito: tutto qui?).
In questo In vacanza con Petripaselli il gioco si è complicato, e si è fatto in parte più scoperto. Due entità dialogavano, in un contenitore per nulla neutro: da una parte, una piccola mostra di foto, dall’altra una performance. L’ambientazione era offerta dalla vecchia sede de La Pillola 400, luogo di coworking ma anche di eventi e mostre, con una specifica e ferma vocazione alle tematiche dell’ambiente e dell’ecosostenibilità. Dunque, era possibile, e anzi auspicabile, un ‘riciclaggio’, basato sulla riproposta variata di un concetto e di una volontà artistica, che si fletteva in altri significati.
Questa volta le fotografie in mostra erano montaggi in cui Petripaselli si autoinserivano in luoghi topici della nostra memoria artistica corrente: siti italiani meta di grandi flussi turistici, punti fermi insomma di quello che si usa ancora chiamare – nonostante la bruttezza del termine – l’immaginario collettivo. In un dilaogo ironico con la location, indicando o facendo finta di ammirare, mettendosi in posa o fotografando, comparivano in piazza Duomo a Milano, con la chiesa sullo sfondo, davanti a un panorama mozzafiato del Golfo di Napoli col Vesuvio, a fianco dell’abside romanica della Cattedrale di Pisa e della torre pendente (qui insieme a due turiste catturate nel frame), dentro al Colosseo, e altrove ancora, con le due soste obbligate di Venezia a Firenze, rispettivamente sul Canal Grande all’altezza della Salute, un punto da vero vedutista lagunare del Settecento, e a confronto con la parte bassa del David di Michelangelo, cui si rivolgono dandoci le spalle. Il trait d’union non è qui l’evocazione di un altrove attraverso la coppia dei souvenir delle bancarelle e del precipitato di una tradizione culturale, se non proprio accademica: ma una presenza fisica, tanto ingombrante quanto virtuale, che trova nella scelta di mantenere gli stessi vestiti un segno di continuità visiva e di racconto, come quando nei cicli affrescati o nelle predelle medievali un personaggio mantiene (e deve mantenere) per il pubblico una riconoscibilità funzionale alla comprensione di quanto narrato. Un altro, più personalizzato, viaggio in Italia, dunque.
A fianco, un piccolo ma attrezzato set, con uno sfondo neutro: i partecipanti all’evento (c’era musica, si beveva, si mangiava) si mettevano in posa, da soli o in coppia, o in gruppo, dotati opportunamente di specifici attributi iconografici; gadget da spiaggia, cappelli, zoccoletti, reti per farfalle, e altro ancora, in mano; venivano fermati in pose diversificate, e fissati nella memoria della macchina. In tempo reale, poi, le immagini erano montate entro alcune delle fotografie che la coppia aveva scattato nel corso delle proprie vacanze: spiagge esotiche, alta montagna, siti archeologici precolombiani, campagne francesi, panorami veneziani.
Tutti avevano la possibilità di vivere l’esperienza, o meglio nell’esperienza, compiuta già da Petripaselli: perché come detto, se tu ti ci vedi, e gli altri ti ci vedono, vuol dire che ci sei stato. Inserirsi in un ricordo altrui, ma in modo gentile, spiritoso, leggero: senza forzature, ma in simbiosi ludica. Photoshop, e gli altri programmi di elaborazione fotografica, rendono del tutto normale, e quasi naturale, dunque questo incrocio tra la ri-collocazione dell’autore/artista e quella del suo pubblico in contesti altri, e la condivisione virtuale di un’esperienza di viaggio senza spostarsi di un metro; come si poteva essere più in sintonia con una sede che del km 0, in altro senso e contesto, faceva un proprio cavallo di battaglia? We can remember it for you, come nel racconto di Dick; o forse we can remember it with you, con o senza souvenir materiali. E con tanti saluti, di effetto e di metodo, alla psicogeografia.
Fabrizio Lollini